L’oceano: potente, vitale, misterioso. Un ecosistema complesso e indispensabile per la salute del nostro pianeta, eppure ancora così poco conosciuto. Sono tantissimi gli interrogativi sul mare ancora irrisolti; paradossalmente abbiamo più informazioni sulla superficie della Luna che su quella delle profondità oceaniche. Si stima addirittura che il 90% delle specie marine non siano ancora state scoperte. Eppure le acque salate ricoprono più del 70% della superficie del nostro pianeta, tanto che, anziché pianeta Terra, sarebbe forse più corretto chiamarlo pianeta Oceano. È questo il titolo del saggio divulgativo dedicato all’importanza e alle fragilità dei nostri mari scritto da Mariasole Bianco, biologa marina e fondatrice della onlus Worldrise per la conservazione del mare. Perché, se c’è qualcosa che sappiamo, è che un oceano in buona salute è indispensabile per l’intero pianeta, umanità compresa. L’oceano, con le sue correnti, contribuisce infatti alla regolazione del clima, ospita circa l’80% della biodiversità mondiale ed è il principale serbatoio di anidride carbonica. Assorbe ogni anno un quarto delle nostre emissioni rilasciando in cambio, grazie all’instancabile lavoro del fitoplankton, la metà dell’ossigeno che respiriamo. Non è quindi la foresta amazzonica il principale polmone verde della Terra, come molti pensano; l’oceano si aggiudica anche questo primato.
Questo ambiente così vasto e potente è stato per lungo tempo considerato come una fonte inesauribile di risorse, senza prestare particolare attenzione alla sua effettiva salute. Oggi sappiamo invece che quello del mare è un equilibrio delicato e minacciato su più fronti, che si trova oggi più che mai al centro dell’attenzione della comunità scientifica. Quest’anno l’Unesco ha infatti inaugurato il Decennio del mare: una decade di studi, progetti ed interventi dedicata dalle Nazioni Unite alle scienze del mare e allo sviluppo sostenibile.
Il cambiamento climatico sta infatti ponendo sotto stress anche l’ecosistema marino; l’aumento della temperatura delle acque porta a conseguenze complesse e non sempre prevedibili che vanno ad alterare il funzionamento delle correnti oceaniche e il trasporto di nutrienti, influenzando l’intera catena alimentare. Molte specie hanno inoltre un intervallo di temperatura ottimale limitato, al di sopra del quale fanno fatica a sopravvivere. È quello che sta succedendo, ad esempio, alle zooxantelle, piccole alghe simbionti dei coralli e necessarie alla loro sopravvivenza. La loro scomparsa nei mari sempre più caldi provoca lo sbiancamento dei coralli e la morte di ecosistemi fondamentali come le barriere coralline, fenomeno allarmante documentato dal film chasing coral. L’aumento della concentrazione di anidride carbonica porta inoltre ad un altro fenomeno preoccupante: quello dell’acidificazione degli oceani.
Anche l’inquinamento pesa fortemente sulla salute degli oceani. Tutto quello che viene emesso nell’ambiente, presto o tardi, finisce in mare; la tragica situazione dell’inquinamento da plastica ce lo ha dimostrato. 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare ogni anno, andando ad alimentare quelle che sono ormai 6 enormi isole, di cui la più grande (il great pacific garbage patch) supera la dimensione degli Stati Uniti. Data la scarsa biodegradabilità dei materiali plastici, questi non si decompongono del tutto ma restano nell’ambiente anche per millenni, sotto forma di minuscoli frammenti, le famose microplastiche. La plastica, di qualsiasi dimensione, seppur non direttamente tossica è molto pericolosa per la vita sottomarina; le microplastiche sono particolarmente dannose anche per noi. Tanti sono gli animali che le ingeriscono scambiandole per cibo: dai piccoli organismi planctonici fino ai grandi pesci che arrivano sulle nostre tavole. La plastica è così entrata a far parte della catena alimentare ed è ormai presente anche nella nostra dieta: una ricerca recente stima che siano in media 40.000 le microplastiche ingerite da una persona ogni anno.
Ma i problemi non finiscono qui. Non è solo quello che gettiamo in mare a cui dobbiamo prestare attenzione, ma anche quello che da esso preleviamo. La pesca intensiva sta infatti minacciando la maggior parte delle specie ittiche, portandoci silenziosamente ad un mare con più plastica che pesci. Sono più dell’80% infatti, secondo ricerche recenti, le specie commerciali sovra sfruttate; questo vuol dire che peschiamo troppo e troppo spesso, senza lasciare ai pesci il tempo di riprodursi e ripopolare i mari, andando quindi ad impoverire sempre di più gli stock ittici. Già nel 2009 il documentario al capolinea- the end of the line aveva denunciato la situazione riportando la voce preoccupata di molti scienziati che sostenevano che, se la pressione della pesca non fosse diminuita, entro il 2050 avremmo potuto trovarci di fronte ad un mare senza pesci. Da allora le cose non sembrano essere migliorate, tant’è che l’anno scorso 50 scienziati hanno firmato una lettera, indirizzata al Commissario europeo per l’Ambiente, per chiedere di porre maggiori limiti alla pesca in modo da favorire la ripresa degli ecosistemi marini.
Recentissimo è inoltre l’approdo su Netflix di un nuovo documentario di denuncia: Seaspiracy. Questo mette in luce, oltre all’inarrestabile declino delle specie ittiche, i tanti e poco noti danni collaterali della pesca intensiva. Dalle reti disperse o abbandonate responsabili di più della metà dell’inquinamento da plastica dei nostri mari, al massacro silenzioso di tartarughe, squali e cetacei o di tutte le specie non pregiate che, una volta pescate insieme alle specie target, vengono rigettate in mare spesso già morte. Questa porzione, definita pesca accidentale (o bycatch), ammonta secondo i dati del WWF al 40% del pescato mondiale, uno spreco che non possiamo più permetterci. Anche l’acquacoltura ha un impatto tutt’altro che trascurabile sia a livello di inquinamento che di distruzione di habitat e non può dunque essere considerata un’alternativa sostenibile alla pesca. Senza contare che la maggior parte delle specie commerciali allevate, come il salmone, sono carnivore e nutrite con farina di pesce. Bisogna quindi continuare a pescare anche per nutrire i pesci di allevamento, senza una vera diminuzione di pressione sugli stock ittici.
L’unica soluzione veramente sostenibile sembrerebbe quindi quella di ridurre le quantità di pescato, combattere la pesca illegale che ogni anno sfora i limiti stabiliti per legge ed investire nella conservazione dell’ambiente marino con la creazione di riserve protette, che diano alle specie sempre più minacciate il tempo e lo spazio per riprendersi e tornare a popolare i nostri mari. Perché la buona notizia è che, se gliene diamo la possibilità, l’ecosistema marino è in grado di rigenerarsi sorprendentemente in fretta.
Articolo di Marta Lauro per Legambiente Parma